Quando la tua vita è dedicata alla guerra, di storie tristi ce ne sono tante, si accumulano come cadaveri dopo una battaglia, una sopra l’altra. Per il mio popolo le uniche che si tramandavano erano quelle che parlavano di sangue ed eroi. Per me l’unica che valeva la pena di raccontare era quella di Romeo e Giulietta. Ma per molto tempo non ci sono riuscito. Non mi è facile parlarne nemmeno adesso, perché io c’ero. E questa non è solo la loro storia, ma appartiene anche a tutti quelli che l’hanno vissuta. Ho pianto per molti di essi. Li ho ricor- dati, ho sperato anche di dimenticare. Ma il dolore trova comun- que un posto dove accomodarsi e tenerti compagnia per sempre. E quando vivi un numero infinito di solasteri (che voi chiamate anni) quel per sempre è un tempo che ti consuma giorno dopo giorno. Ci sono volute centurie prima che riuscissi a raccontare a qualcuno questa storia e quando l’ho fatto è stato un ragazzino dai capelli ispidi e l’aria allampanata, a sentirla per la prima volta. Si chiamava William. O almeno questo era il nome con cui aveva deciso di farsi conoscere. Ci incontrammo sul greto di un fiume e lì, mentre il sole cedeva il posto alla luna, rimanemmo seduti a parlare fino a che gli astri non si scambiarono di nuovo. Fu liberatorio. Catartico, forse. In ogni caso, pensai che il ragazzino se ne sarebbe scordato in breve tempo. Non fu così, ovviamente. Come tutti ben sapete. Sono stato spesso a teatro, e ogni volta mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se William avesse scritto la storia così come gliela avevo raccontata io.